L’IMPORTANZA DI PROGETTI DI DEATH EDUCATION NELLE SCUOLE: PROMUOVERE CONSAPEVOLEZZA ATTRAVERSO LA RIFLESSIONE SULLA FINITUDINE

l'importanza della death education nelle scuole

A cura di  dott.ssa Manuela Dozio e dott.ssa Petra Bonomo

Non me l’aspettavo davvero, quella mattina, a colazione, che quegli
occhi grandi che avevano fatto domande, mi facessero
proprio quella, la domanda più grande, e dolorosa, di tutte.
La più antica, quella su cui uomini e donne si interrogano dall’inizio 
dei tempi, e soprattutto: la domanda a cui è più delicato e complesso
offrire risposte, non solo ai bambini ma anche a noi stessi.
Non mi chiese perché si muore:
mi chiese se lui ed io saremmo morti.
Sentivo forte la tentazione di dirgli “ Non ci pensare, andiamo a
giocare”: è sempre così convincente la tentazione di offrire ai bambini
solo fate e fiori, soffrendo nel raccontare anche di mele avvelenate,
orchi, draghi e boschi con ponti levatoi da attraversare.
Mi feci coraggio e gli dissi che sì, la morte è.
Quel salto nel vuoto fu davvero un ingresso nel bosco: dove lui mi
portò, dove in fondo ogni figlio e ogni figlia ci porta.
Perchè è proprio lì che portano le domande delle bambine e dei
bambini, e in particolare proprio quelle che è più difficile sentire:
nel bosco, quel luogo interiore dove tutti diventiamo esploratori,
cercatori, eroi che al cospetto del drago e del buio imparano che il
segreto della vita è anche la morte.
E che il segreto della bellezza è nella ricerca, ovvero in quella parola
piccola che in questo libro risuona più volte:
tutto non è solo in un modo, nel modo in cui appare,
tutto è anche molte altre possibilità.
E così ti succede che puoi imparare a vedere anche al buio,
anche il buio.

La conclusione dell’albo illustrato di Chiara Scardicchio, dal titolo : “ E se la morte fosse un bosco?”, descrive molto chiaramente uno dei momenti di vita con cui molto genitori si trovano a dover fare i conti: quello in cui i figli pongono degli interrogativi riguardo alla morte e al morire. L’urgenza, in queste circostanze, sembra quella di fornire delle risposte immediate, per chiudere o sospendere, almeno temporaneamente, la riflessione sulla finitudine.

Ma i bambini sono curiosi, hanno bisogno di sapere e l’autrice propone il bosco come metafora della morte, sollecitando tutti, genitori, figli ed educatori a pensare ad essa come a qualcosa da esplorare insieme, alimentando così la curiosità verso questo grande mistero e, conseguentemente, il desiderio di conoscerla più a fondo. 

Perchè parlare di morte può far paura, ma può ANCHE far provare tante altre cose.

La nostra cultura è organizzata intorno alla rimozione del pensiero sulla mortalità: tutto ciò che causa sentimenti tristi e difficili da elaborare, come lo è la riflessione sulla finitudine, sul dolore e sul senso della vita in rapporto alla morte viene censurato, in quanto distoglie l’attenzione dagli obiettivi che orientano l’azione produttiva. 

Anche il dolore è considerato inutile e come qualcosa da estirpare, difatti l’uso e l’abuso di farmaci è l’esito di un pensiero socialmente condiviso che vede la sofferenza non come un processo da attraversare, ma come un intralcio da evitare. Eppure il dolore, come tutta l’umanità testimonia fin dalle proprie origini, può essere portatore di processi di significazione cruciali.

Spesso la ricerca di senso e le risposte relative alle cose ultime nascono proprio dalla sofferenza.

Come sostiene Ines Testoni ( Bollati Boringhieri, Psicologia palliativa: intorno all’ultimo compito evolutivo, 2020), i tempi di malattia e senilità si stanno estendendo in modo considerevole, imponendo alle persone di fronteggiare l’esperienza del limite per periodi sempre più lunghi, quindi  diventa necessario riportare questi temi nella coscienza collettiva. Impedire una riflessione autentica dell’esperienza morte infatti non sta portando ad esiti adattivi ma, anzi, rende il pensiero della morte insostenibile, terrificante e libero di agire nel nostro inconscio senza barriere concettuali. 

Comportarsi come se la morte non esistesse, non prendere in considerazione il discorso della finitudine, in famiglia come a scuola, non risolve il problema. Non lo risolve perché la morte è un argomento che coinvolge tutti, non solo chi sta attraversando un lutto. Tutti noi, prima o poi, veniamo in contatto con la morte o comunque siamo chiamati a confrontarci con questo tema.

Diventa quindi fondamentale, prima di tutto a scuola, allestire percorsi di death education, per garantire riflessioni corrette sui temi della morte e dare finalmente uno spazio a tutte le emozioni che questi suscitano.

Noi facciamo già educazione alla morte ogni volta che mostriamo ai ragazzi come è giusto reagire a un grande dolore, a una perdita, a una separazione. Diventa tuttavia importante scegliere che tipo di educazione si vuole dare.

L’educazione di oggi

L’educazione dominante oggi si ispira alla massima del filoso Spinoza, secondo la quale: “il saggio pensa alla vita, non pensa alla morte”. Sicchè, quando si è raggiunti da pensieri legati alla morte, si deve imparare a fare cose che distolgano da essi e dai sentimenti (paura, angoscia e desiderio) che a essi si accompagnano. L’educazione alla morte tende allora a diventare un apprendimento dei modi per non pensarci (Campione, La domanda che vola, 2012).

Se da una parte questo atteggiamento è legato al desiderio di proteggere i più piccoli, dall’altra è legato al preconcetto che proteggerli significa fare in modo che non conoscano il dolore, che siano tenuti al sicuro da ogni tipo di sofferenza, che conoscano un mondo sempre e solo bello. Questa spinta interna è umanamente comprensibile, ma occorre domandarsi se assecondarla vada davvero nella direzione di fare il “bene” del bambino o del ragazzo. 

Dal momento che il mondo non è sempre e solo bello e la vita non è sempre e solo felice, il compito educativo non dovrebbe limitarsi a proteggere ad ogni costo, ma dovrebbe sostenere il bambino che soffre aiutandolo a capire che il dolore può essere guardato, attraversato, e inglobato in una esperienza significativa.

Educare alla morte, quindi, è permettere ai bambini di fare domande, a casa come in classe, sentendosi liberi di esprimersi e sentendosi accolti in questo loro bisogno di conoscere. Significa insegnare agli adolescenti che la sofferenza fa parte della vita, che se ne può parlare, che sono dotati di risorse per far fronte ai momenti dolorosi.  E’ aiutare gli adulti a dare una significazione anche all’ultimo compito evolutivo e renderli consapevoli che, la riflessione sulla propria o altrui finitudine, consente di accedere a livelli esistenziali più profondi. 

Programmi di death education nell’iter scolastico possono offrire anche alle insegnanti alcuni strumenti per riconoscere i profili dell’angoscia e sostenere gli alunni nell’elaborazione di vissuti di perdita e in generale, di sofferenza. Questo a tutte le età ma in particolare durante l’adolescenza, quando è maggiore il rischio di condotte autolesive e ideazioni suicidarie.

Sollecitare, nelle comunità di apprendimento, il dialogo e la condivisione di tematiche esistenziali connesse alla finitudine può diventare, per studenti e insegnanti, una buona pratica che consente di trasformare i tabu’ in luoghi di conoscenza e le angosce in risorse e opportunità di cambiamento, mantenendo così sempre vivo il desiderio di una maggiore esplorazione di sé. 

Quando non sappiamo come andrà,
quando non sappiamo cosa succederà,
non significa che lo sconosciuto sarà terribile,
significa che abbiamo un nuovo mondo da esplorare.

Chiara Scardicchi

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